Uno dei più famosi capolavori della drammaturgia contemporanea, dove comicità e dramma si mescolano continuamente. L’esistenza li ha messi a dura prova, ed ha lasciato loro soltanto l’amaro sapore della memoria. Pacebbene e Cirillo, rispettivamente ex-sagrestano ed ex-suggeritore. Come dire: mai meglio che marginali, rischiano di perdere qualunque identità. Non sono in grado di esprimere altra volontà se non quella di spostarsi – intersecandosi e delimitandosi, sorreggendosi e calpestandosi – su e giù per la lesionatissima unica stanza che costituisce il loro covo. Noncuranti delle crepe che si allargano nella loro anima. Parlano e giocano a farsi male. Si attraggono e si respingono, in un massacro fatto di ripugnanza e di accorato bisogno di comunicare. Senza altra libertà che non quella di evocare (annodandosi reciprocamente nei vischiosi fantasmi della religione, del corpo – opaco e irrequieto – dell’infanzia, del sogno) un passato frusto ed ambiguo, fra minacce, reciproci sospetti, equivoci e travestimenti. Li domina e li minaccia il bradisismo; non solo sprofondare, quanto perenne vacillare. L’uscita di emergenza, poi, non c’è, è una beffa: e suprema beffa diviene la suprema uscita, anche la morte